Pensavo a quello che tutti ereditiamo dai nostri vecchi e non posso certo dire di rivedere granché dei miei. Nel senso che quando mi guardo allo specchio mi devo proprio scomporre il corpo per notare qualcosa. Solo allora noto le rughe intorno alle ginocchia, la punta tonda del naso e l’onda della spina dorsale. Tutta la mamma. Come una che si è presa un pomeriggio, seduta a piedi nudi sotto il portico a tagliarsi via pezzetti di ossa, e mi ha assemblata così. Ma non devo sforzarmi più di tanto per riconoscere quello che faccio oggi. Sia papà che la mamma l’amore lo esprimono cucinando, così non devono usare le parole. Mister Mississippi e io usciamo da qualche mese ormai e non ce lo siamo ancora detto. La nostra pelle è tutta un fremito di cicale, nell’attesa. Voglio che me lo dica lui per primo, perché non penso di sapere esattamente cosa rispondere finché non mi ci trovo. Quindi, mentre aspetto, gli faccio una crostata per mostrare quello che sento.
È la crostata alle fragole che la mamma prepara d’estate. Fa troppo caldo per quella di noci pecan o zucca, ad agosto. È perfetta in questo periodo, perché le fragole e tutto il ripieno si mischiano bene con la panna montata, e ogni morso è così freddo sulla lingua che ti senti rinfrescare lo stomaco. Mi ricordo la volta che parlando col figlio del pastore protestante ho chiesto alla mamma chi aveva detto Ti amo per primo, tra lei e papà. Mi ha detto che era stato lui, a casa dei genitori di lei – lo stesso posto dove poi le avrebbe chiesto di sposarlo, su quel tappeto verde di lana, sfilacciato e pieno di pelucchi, in soggiorno.
Alcune fragole sono più grandi delle altre. Ce n’è una che è come tre messe insieme – una zampa di tartaruga, delle onde o i petali di un fiore. Mi spingo in avanti col peso, fino a toccare il piano della cucina con le ultime costole in basso. Taglio la fragola in tre e due fettine me le ficco in bocca. La loro dolcezza mi ricopre la lingua, sa di boccioli di rosa, ed è quasi come tornare di nuovo in cucina, in piedi sullo sgabello col sorrisetto sulle labbra a guardare la mamma che prepara questa crostata per la prima volta. Finivo sempre nei guai perché mangiavo troppe fettine di fragole, e lei ridendo mi diceva: Amore, mica possiamo fare una crostata che ha più ripieno che fragole.
Oggi faccio onore alla mamma e preparo la crostata come dice lei: fragole e gelatina che luccicano su fino al bordo. Col cucchiaio ci metto sopra la panna montata, quasi tutto il barattolo. Passo il dito sul cucchiaio e lecco la panna prima di buttarlo nel lavello. Mister Mississippi preferisce le crostate alle torte. Me l’aveva detto quella volta che, ancora assonnato, mi raccontava dei suoi sogni fatti solo di forme e colori. Quasi come un cladiscopio, aveva detto, disegnando piccoli cerchi con l’indice.
La base della crostata non la faccio io. Compro l’impasto già pronto, così posso lasciar riposare il ripieno più a lungo, per fargli prendere sapore. (Se facessi una crostata di noci pecan fuori stagione sarebbe un segno più lampante del mio amore? A vedere la cascata di fragole accolte dalla frolla, non saprei). Bisogna farla raffreddare a una certa distanza dalla finestra aperta, così gli insetti non vengono attirati dallo zucchero. Stasera vado io da lui. Anche se abito con la mamma per risparmiare, lei non pensa che c’è niente di strano se vado a trovare Mister Mississippi. Solo perché la mamma crede in Dio non vuol mica dire che è all’antica, come ci si potrebbe aspettare al primo sguardo.
Mescolo i miei sentimenti a quel che preparo, chissà se legano. Quando papà era andato via di casa, la mamma aveva preparato gumbo in abbondanza per noi due. La polvere di sassofrasso della Rex ci aveva riconciliato con la terra, quell’odore che saliva dalle nostre ciotole dopo un paio di spolverate, proprio come piace a noi. La mamma aveva detto di aver cucinato il gumbo nella pentola grande perché avanzasse per il giorno dopo, ma una parte di me pensa che era il suo modo di mantenere la speranza.
E io sono figlia di mia madre. Mister Mississippi abita in un appartamento vicino all’università. La crostata la apprezza moltissimo. A bocca piena, mi chiede che cosa ho sognato la notte scorsa. Mando giù e gli dico che i miei sogni sono del tipo in cui le persone ci sono ma in realtà no. Che non riesco a vederle intorno a me, ma nel profondo lo sento che ci sono. Continuiamo a mangiare. Mi chiede come faccio a saperlo e io dico che lo so e basta.
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Titolo originale, More Filling Than Berries, copyright @ Katherine O’Hara, all rights reserved.
Traduzione di Marta Russo.
Come una che si è presa un pomeriggio, seduta a piedi nudi sotto il portico a tagliarsi via pezzetti di ossa, e mi ha assemblata così.